Storie di casi

    … se non cambiasse mai nulla… 

non ci sarebbero le farfalle

La donna dal tailleur nero

Storia di una donna apparentemente forte, che forte lo diventa davvero

La donna dal tailleur nero

Alta, bionda e sorridente. La prima volta che entrò nel mio studio indossava un tailleur nero con giacca e pantaloni; uno stile piuttosto maschile, quasi da uomo di affari, ma su di lei stava benissimo. Lo portava con eleganza e naturalezza, e a stento potevo credere che una donna all’apparenza così sicura e intraprendente avesse bisogno di aiuto. Iniziò a parlare di sé con tono deciso e chiaro: descrisse con precisione il ruolo che aveva nella sua azienda, un ruolo importante per essere una donna, ruolo che rivestiva da anni e che non aveva mai cambiato, nonostante avesse lavorato in tante altre aziende trasferendosi ogni volta in città diverse. Una donna sola, senza una relazione fissa, ma di questo non sembrava preoccuparsi, nonostante avesse ormai quasi quarant’anni. Eppure, via via che parlava, il suo sguardo comunicava un bisogno, raccontava di altro che a malapena riusciva a dire: in effetti non seppe dirmi esattamente di che cosa soffrisse, ma solo che non stava bene. Non riusciva più a dormire, si sentiva pressata per ogni minima cosa, aveva un’ansia costante, non era soddisfatta né tanto meno felice: insomma era come se fosse sul punto di scoppiare. Ma non afferrava niente di sé stessa. Era totalmente inconsapevole delle dinamiche che accadevano dentro di lei ogni volta che la sua voce interiore la sgridava per non aver raggiunto abbastanza profitto nel suo lavoro, per non essere stata abbastanza forte, per aver mostrato anche il minimo segno di debolezza: una cosa impensabile per lei.

Dopo un anno di terapia, quella donna dal tailleur nero non esiste più: al suo posto ora c’è una donna che sta ancora cercando di trovare il suo posto nel mondo ma che è finalmente in contatto con sé stessa. Non ha più bisogno di essere forte, ora, non ha più il divieto di mostrarsi fragile: ha contattato finalmente una parte di sé prima totalmente nascosta e a lei ignota. Ha abbandonato il suo vecchio lavoro che non riusciva più a svolgere; ha cambiato molte delle amicizie che aveva e dalle quali non traeva più niente in termini di crescita e arricchimento; ha modificato anche il suo aspetto esteriore. Ora emana finalmente luce: e sarà proprio questa luce che proviene da dentro ciò che la porterà a trovare il suo posto nel mondo e la sua felicità.

 

 

E i tic… come per magia, se ne sono andati

La terapia indiretta che agisce suoi figli a partire dai genitori

E i tic come per magia se ne andarono

A chiamarmi fu una madre. Una telefonata dalla quale compresi subito dove fosse insidiato il problema, dal momento che, conclusa la telefonata, avevo uno strano senso di pressione, quasi di ansia. Nei cinque minuti di conversazione telefonica riuscii solo a chiedere ora e giorno per fissare il primo appuntamento: il resto del tempo era stato totalmente invaso dal monologo di questa mamma che cercava di spiegarmi, velocemente, di che cosa soffriva suo figlio, dando anche interpretazioni personali riguardanti la situazione. Volli vedere madre, padre e figlio insieme: mai nessun caso mi è stato così chiaro fin dal primo incontro. Il figlio, un ragazzino di quattordici anni, era completamente invaso dai tic: tic agli occhi, alla bocca, al naso, alle braccia, alla schiena… era quasi imbarazzante guardarlo. Durante la seduta lo misi davanti a me e i due genitori ai suoi lati: era impressionante come, per l’intera ora dell’incontro, questo figlio fosse pressato da questi due genitori; mi guardava ogni tanto con sguardo incerto; forse cercava aiuto, forse mi stava solo studiando. Resta il fatto che nel farli parlare per primi, la pressione e l’ansia che avevo sentito al telefono era di nuovo dentro di me… e così potetti sentire quello che sentiva il figlio.

La madre, una donna estremamente ansiosa e iperprotettiva, nonché logorroica e poco empatica; il padre più silenzioso e apparentemente pacato, ma tranciante nei giudizi e ipercritico verso ogni aspetto della vita del figlio. Non c’era in loro alcuna traccia di comprensione della malattia del ragazzo: per loro doveva semplicemente smettere di ‘fare quei versi’, dal momento che, come dicevano in modo piuttosto sprezzante, ‘ci vergogniamo ad andare in giro’. Più cercavano di riprenderlo chiedendogli di smettere e più i tic aumentavano, ma più i tic aumentavano più aumentavano i loro rimproveri e le loro ansie. Un circolo vizioso deleterio, di cui il figlio era la principale vittima.

Lavorare con questi due genitori non è stato affatto facile: inizialmente ho incontrato molta resistenza nel far fare loro ciò che chiedevo per aiutare il figlio; col ragazzo in realtà ho lavorato molto meno, solo alcune sedute, perché il problema di fondo erano gli atteggiamenti e le modalità tenute dai due genitori. Una volta bloccato il circolo vizioso delle critiche sui tic, e acquistando sempre più fiducia da parte dei genitori, – dal momento che avevano toccato con mano che, così facendo, i tic del figlio erano molto diminuiti –, ho iniziato gradualmente a lavorare con loro sulla possibilità di diventare dei genitori più empatici ed emotivamente presenti. Sottoponendoli ad un test sugli stili educativi, ho potuto far constatare loro gli errori commessi col figlio, seppur involontari; grazie a questa nuova consapevolezza sono riusciti a diventare dei buoni ‘allenatori emotivi’ per il figlio, che di conseguenza, col tempo, si è sentito più accolto, più compreso e senza dubbio meno pressato. E i tic, come per magia – che magia non è –, se ne sono andati.

 

 

Rinascere al tramonto

Non è mai troppo tardi per superare i blocchi emotivi che ci impediscono di vivere

Rinascere al tramonto

 

Aveva più di cinquant’anni quando mi chiamò: una signora distinta, due figli e una buona posizione sociale. Curata, ma non in modo eccessivo; elegante e fine; attenta al piccolo particolare, segno di una donna precisa e signorile. Ma quella donna era invasa dall’ansia: non mangiava più, non dormiva più, ogni cosa era fonte di preoccupazione. Aveva paura di qualsiasi cosa potesse accaderle e di qualsiasi cosa potesse accadere alle persone che amava. La sua priorità assoluta era che tutto andasse bene in famiglia: che non ci fossero scontri, litigi, battibecchi, soprattutto tra lei e suo marito. Per evitare questo, cercava sempre di accontentare tutti, non esprimeva mai la sua volontà, i suoi pensieri e le sue sensazioni, tanta era la paura che così facendo potesse creare dei pretesti per litigare. Il contrasto non era in grado di gestirlo, di nessun genere, soprattutto con suo marito: le volte in cui la voce di quest’uomo si faceva più forte, lei perdeva ogni ombra di lucidità, si sentiva morire, e iniziava a fare qualsiasi cosa pur di risistemare le cose con lui. Ogni contrasto, anche il più piccolo, era vissuto da lei come la fine della relazione, e di conseguenza per lei la fine di ogni cosa.  Alla base di questo suo atteggiamento una sola e unica paura: la paura di essere abbandonata, di rimanere da sola, di non poter sopravvivere nel caso in cui suo marito avesse voluto decidere di lasciarla. L’ho sentita pronta ad affidarsi fin dal primo giorno, come una bambina che si affida alla mamma. E in effetti, grazie alla sensazione che sentivo ogni volta che ero in seduta con lei, è stato sempre più chiaro il problema che era alla base di tutto: la paura di essere abbandonata dal marito era la paura di essere abbandonata dalla madre, il terrore di esprimersi con lui era quello che viveva in casa quando era piccola: il suo ruolo era quello di dover essere la bambina perfetta che non dava mai fastidio, perché in casa c’erano già altri problemi, per cui lei non poteva esserne un altro. Una personalità completamente plasmata e adattata sugli altri, che sulla relazione col marito proiettava tutto quello che aveva vissuto nella relazione materna.

Cominciare a prendere consapevolezza di tutto questo ha iniziato ad aprire il varco per una possibilità dentro di lei, quella di poter esistere, di poter esprimere, di non aver paura di esserci con tutta sé stessa. La scrittura l’ha aiutata tanto, così come altri strumenti che le ho prescritto via via; ma più di ogni altra cosa le è servito sentire che io ci fossi, che io non l’avrei mai abbandonata e che solo quando fosse stata pronta, avrei cominciato a mettermi da parte per farla andare avanti con le sue gambe. Ora è un’altra donna: mangia, dorme e non è più attanagliata dall’ansia; riesce a dire le cose che non le vanno, sopporta lo scontro, soprattutto col marito, gestisce la sua vita in modo indipendente e finalmente pensa di più a sé stessa, e meno agli altri, secondo l’insano altruismo che la contraddistingueva. È orgogliosa di sé stessa, e non fa altro che ringraziarmi ogni volta, nei rari incontri in cui ci vediamo ancora. In realtà, come le ripeto ogni volta, deve solo ringraziare sé stessa per il coraggio che ha dimostrato nel decidere di cambiare anche quando il tempo sembrava essere quello del tramonto, anziché del sole di mezzogiorno. C’è sempre tempo per crescere, e questo lei lo ha dimostrato.

 

 

E poi diventai farfalla…

Il difficile percorso per uscire dall’anoressia

E poi diventai farfalla

Sapevo già quale fosse il suo problema prima ancora che iniziasse a parlare; evidente sul suo corpo, palese nel suo sguardo. Quella dannata malattia la stava divorando da ormai cinque anni e ne aveva solamente venti. Iniziò a parlare con voce bassissima, a stento riuscivo a capirla; era delicata nel raccontare la sua storia, usava parole giustamente pesate all’interno della frase, niente era fuori posto. La consapevolezza del suo male era chiarissima: sapeva tutto dell’anoressia, delle sue dinamiche, dei suoi meccanismi. Una malattia odiata ma allo stesso tempo necessaria per mantenere il suo equilibrio, che per quanto patologico, era pur sempre sotto il suo controllo. Fin da subito ho percepito la sua paura, soprattutto quella di affidarsi di nuovo a qualcuno che potesse aiutarla a uscire dal suo maledetto tunnel di sofferenza; ho accolto i suoi timori, ho accolto la sua diffidenza, ho accolto lei, così come si è presentata a me. Ho cercato di trasmetterle un’accettazione incondizionata della sua persona, anche della sua malattia; nessun bisogno di dover essere con me quello che si obbligava a dover essere fuori, con gli altri, per compiacerli, per essere perfetta. E così, incontro dopo incontro, l’ho sentita ogni volta un passettino sempre più vicina a me, ma soprattutto più vicina a sé stessa. Insieme abbiamo fatto un forellino nella sua armatura… non è stato importante se piccolo, la cosa importante è che ad un certo punto c’è stato. Da quel momento, valorizzandolo ogni volta di più, quel forellino è diventato uno squarcio, una finestra dalla quale ha cominciato ad entrare la luce: una luce di vita, di piacere, di emozione, di perdita di controllo. Però, quanta fatica non cedere alla voce della malattia che ogni volta avrebbe voluto richiudere quello che, con tanta volontà, riusciva ad aprire…

È iniziato con lei un percorso di terapia molto faticoso, ma allo stesso tempo ricco di emozioni e soddisfazioni, soprattutto per sé stessa. Ricordo il giorno in cui mi ringraziò per averle fatto cambiare modo di vedere le cose: ‘vedo il mondo con occhi diversi’, mi disse; ‘forse posso ancora sperare di guarire…’. Con dedizione e pazienza, ho visto quella bambina impaurita mutarsi in una donna bellissima, sia fuori sia, e soprattutto, dentro; una persona estremamente profonda e sensibile che è riuscita a trasformare queste sue qualità, prima soffocate e rinchiuse dentro la corazza dell’anoressia, in punti di forza, permettendosi di essere, finalmente, quella che è.

 

 

Anima fragile

Il lungo percorso per liberarsi dalla corazza della bulimia

anima fragile

Le sue mani dipingevano come un angelo, delicate e morbide su quelle tele; ma a tratti si animavano di una forza decisa, quasi irruenta, tanto da sembrare altre mani. Alla fine le sue opere, che fossero state dei quadri, delle sculture o delle creazioni di altro genere, portavano il suo marchio, era impossibile non riconoscere che le appartenevano. Sì, perché attraverso di loro questa ragazza, o meglio questa donna, esprimeva completamente sé stessa, quella che era, in ogni suo aspetto; forse solo lì anzi, senza dubbio solo lì, si manifestavano tutti i lati della sua personalità. Lei era tutto e niente, bianco e nero, dolce con gli altri ma aggressiva con sé stessa, era euforia e disperazione, era digiuno e abbuffata.

Conviveva con la bulimia da ormai più della metà della sua vita, da quando era appena adolescente; la sua malattia, frutto senza dubbio di un’infanzia difficile, ha iniziato a prendere possesso di lei improvvisamente, senza più lasciarla un solo giorno. Sì, perché la bulimia fa questo: ti si attacca addosso come una sanguisuga, ma solo se sei una persona estremamente sensibile che non riesce a sopportare le ferite dell’anima. Come una protezione, una difesa, una barriera, questa malattia le è servita nel corso degli anni per non sentire dolore, o almeno per non sentirne troppo: era meglio, sicuramente meno doloroso, pensare a quante calorie ingeriva anche in un solo pasto per poi sentirsi in colpa per giorni, piuttosto che accettare la dura realtà di essersi sentita non amata in modo incondizionato, non accettata e non compresa emotivamente da chi, avendola messa al mondo, tutto questo doveva farlo e basta.

Venne da me dopo aver passato anni in terapia: aveva visto psicologi, psichiatri, nutrizionisti; ne aveva provate di tutte. Con me volle fare l’ultimo tentativo, si fidava di me. Io mi fidavo di lei. Non ci sono parole, ve lo garantisco, per descrivere l’emozione che ho provato quando, dopo quasi due anni in cui ci vedevamo regolarmente quasi ogni settimana, con le lacrime agli occhi e la voce tremante mi disse: ‘Devo dirti una cosa…’; ‘che cosa? Dimmi?’ risposi. ‘Io non soffro più di bulimia, ora lo so per certo; lo so ormai da tempo ma volevo aspettare ancora un po’ per dirtelo con certezza perché volevo esserne sicura’.

Tolta la bulimia, quindi tolta la difesa e la corazza esterna, il lavoro che abbiamo continuato a fare e che tuttora stiamo facendo si è spostato su quegli aspetti più profondi, sui quali già lavoravamo da un po’, che hanno fatto da base per la formazione della sua malattia. Essersi liberata dal suo mostro è stato difficile, ma ci è riuscita, e riuscendoci ha potuto riprendere in mano la sua vita e cicatrizzare le ferite inferte alla sua anima: ora la sua bellezza interiore, insieme a quella esteriore, possono venir fuori finalmente libere.

Il tunnel

Il difficile percorso per liberarsi da un’ossessione

Il tunnel

Il suo sguardo era quello di un bambino impaurito; tutto ad un fiato e con voce tremante iniziò a spiegarmi il suo problema. Ma io sentivo solo la sua ansia; per quanto molto lucido e razionale, controllato e preciso, aveva il fiato corto, tanto che a stento riusciva ad arrivare in fondo alle frasi. Finalmente capii il suo problema, la sua dannata ossessione che non lo lasciava vivere da quando era poco più che ventenne: la sua vita girava intorno alla paura di poter aver bisogno del bagno quando era fuori casa e dell’impossibilità di andarci perché terrorizzato dal pensiero che gli altri avrebbero potuto guardarlo e giudicarlo. Si sentiva sicuro solo in casa dove, verso il figlio e verso la moglie, non provava lo stesso disagio e la stessa vergogna che invece provava fuori casa con persone meno intime. Il suo problema purtroppo lo limitava totalmente: il circolo vizioso che si era venuto a creare era quello per cui più aveva paura di aver bisogno di andare in bagno e più, effettivamente, provava un mal di pancia tremendo che lo costringeva a doverci andare necessariamente; ma più ne sentiva l’effettivo bisogno e più la sua vergogna aumentava, tanto da essere costretto a evitare qualsiasi luogo in cui ci fossero persone non familiari – bar, ristoranti, negozi –. Le rarissime occasioni nelle quali non poteva evitare cerimonie o uscite familiari, erano vissute con fortissimo disagio, dolorosissimo mal di pancia, dal momento che cercava di trattenere lo stimolo fino al ritorno a casa, e il pensiero fisso di non riuscire a resistere e quindi essere ridicolizzato davanti a tutti. Persino la sala d’attesa del mio studio era per lui fonte di grandissima ansia: l’attesa era qualcosa che non riusciva a tollerare perché nell’attesa il mal di pancia si acutizzava e di conseguenza la paura di aver bisogno di andare in bagno.

La terapia con lui è stata come percorrere un tunnel, ma non diritto. La sua galleria, per usare la sua stessa metafora, è stata molto lunga ed aveva una forma ad U: per quanto a fatica si allontanasse dalla luce d’ingresso, quella ben nota della sua malattia, non riusciva a vedere la luce di uscita, quella ancora invisibile della libertà e della guarigione. Ha brancolato nel buio per molto tempo, per almeno un anno, ma qualcosa gli diceva di andare avanti e credere che in fondo ci fosse davvero la fine. Ad oggi, non si capacita ancora come sia riuscito a non tornare indietro e riaggrapparsi a quel bagliore che per quanto patologico, perché appartenente al suo disturbo, era comunque conosciuto e quindi familiare e paradossalmente rassicurante.

Col tempo si è scoperto coraggioso, determinato e soprattutto divertente e goliardico: ha smesso finalmente di giudicarsi e sta sempre più imparando a godersi il presente senza più evitare tutte quelle situazioni sociali che prima erano fonte di terribili ansie. Mancano davvero solo pochi chilometri all’uscita dal tunnel; lo accompagnerò fino all’ultimo metro, dopo di che lo lascerò andare, seppur con quel nodo alla gola che sento ogni volta che lascio andar via le persone perché del mio aiuto non hanno più bisogno. Non sarà facile, ma non aspettiamo altro entrambi.

 

 

Occhi sfuggenti

Occhi sfuggenti

Trasformare i dubbi in azioni aiuta a superare le paure

 

Una ragazza di una bellezza rara, ma portata in modo inconsapevole; così come non conosceva tante altre cose di lei la prima volta che l’ho incontrata. Ignorava il suo essere simpatica, socievole, seduttiva, attraente, curiosa, intelligente; al contrario, si descriveva come bruttina, poco interessante, incapace di stare in compagnia, a tratti completamente inadeguata. Niente le piaceva del suo corpo, niente del suo carattere: gli altri erano tutti e sempre migliori di lei. Quando si sedette sulla poltrona davanti a me la prima volta era spersa: non riusciva a sostenere il mio sguardo, per tutta l’ora guardò altrove; non la forzai in niente, lasciai che parlasse di sé e di quello che la faceva soffrire, ma feci solo poche domande perché volevo solo che si tranquillizzasse e si sentisse un po’ più a suo agio.

Capii il problema che aveva dal modo in cui parlava: il suo non era un discorso fatto di frasi una dopo l’altra, ma solo e soltanto di domande e risposte; e poi nuove domande e poi nuove risposte. Purtroppo le domande che si poneva erano talmente incerte che qualsiasi risposta che cercava di dare loro non riusciva a placarle, per cui emergevano costantemente nuovi dubbi, nuove perplessità. E così era ogni giorno, ogni ora, per qualsiasi cosa che riguardasse la sua vita. Fidanzata da anni con un ragazzo che rappresentava forse una delle poche certezze della sua vita, viveva da sola, con un lavoro che le piaceva. Eppure non era contenta, era affaticata dall’energia sprecata nel rispondere ai suoi dubbi ossessivi. Era infelice.

Ma con una forza di volontà incredibile e con rara determinazione, non ha mai mancato un appuntamento nei quasi due anni trascorsi da che abbiamo iniziato la terapia: l’ho vista trasformarsi gradualmente, come l’argilla che prende forma con dolci carezze, come la farfalla che esce dal bozzo per prendere il volo. Via via che diminuivano le sue paure e i suoi dubbi ossessivi, aumentava la voglia di scoprire che cosa ci fosse al di là della paura, al di là del recinto che tanto la proteggeva quanto la imprigionava. Ha iniziato ad agire di più e a pensare di meno: si è fatta nuovi amici, ha visto nuove realtà, ha iniziato una nuova relazione chiudendo con la precedente. A vederla oggi, a sentirla parlare e a guardarla negli occhi – che finalmente tollerano il mio sguardo – sembra davvero un’altra persona: a volte ridiamo anche insieme e il suo sorriso è come una luce sul suo viso. Ho durato fatica per arrivare a vederla sorridere, lei senza dubbio più di me, ma ne è valsa la pena. Avrà pur perso alcune certezze che aveva in passato, questo è vero, ma doveva perderle necessariamente per andare avanti e per conoscersi come adesso; ancora, in alcuni momenti, ritornano dei dubbi e delle paure, ma non sarebbe normale se fosse il contrario, non sarebbe umana. Senza ombra di dubbio, la conquista più grande che ha fatto in questo percorso di terapia è stata quella di cominciare a vedersi con occhi diversi, non più critici e giudicanti, e ad apprezzarsi davvero per quella che è – per la bella e profonda persona che è.

Mi hai abbandonata

La storia di una ragazza ‘malata’ di ‘dipendenza affettiva’.

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A chiamarmi per fissare il suo primo appuntamento non fu lei, ma l’amica di sua madre. Già questo fu per me l’indizio che c’era una gran confusione di ruoli, anche perché la ragazza che aveva bisogno del mio aiuto non era certo una ragazzina: aveva ormai quasi trent’anni. Quando la vidi la prima volta mi sembrò un’adolescente: vestita con abiti larghi, portava una mezza coda spettinata e neanche un filo di trucco: ricordo che tremava come una foglia. La feci accomodare, cercando di farla sentire a suo agio… giusto due parole e poi scoppiò in un pianto dirotto. Totalmente in preda alla sua angoscia, mi raccontò di una relazione sentimentale burrascosa, finita da circa un mese, con quello che per tre anni era stato il suo ragazzo. ‘Da quando mi ha lasciata’, diceva a fatica ‘io non vivo più… mi vorrei uccidere, la mia vita non ha più alcun senso’; poi, disperata, continuava: ‘Perché mi ha lasciata? Vivevo per lui… facevo tutto per lui… dove ho sbagliato? Perché mi ha abbandonata?’.

Il suo pianto le impediva quasi di parlare, tanti erano i singhiozzi che faceva, proprio come quelli di una bambina abbandonata. È stato così per almeno le quattro, cinque sedute successive. Non riusciva a calmarsi in alcun modo, mi guardava con aria impaurita dandomi l’impressione che se avessi avuto la bacchetta magica mi avrebbe chiesto di materializzare lì il suo ‘amore’ per riaverlo di nuovo.

Fin dal primo incontro con la ragazza, ebbi la sensazione di avere davanti a me una persona del tutto dipendente affettivamente, angosciata e impaurita per essere stata ‘abbandonata’, come ripeteva lei, di essere stata lasciata sola. Addirittura, era tornata a dormire nel ‘lettone’ della mamma perché incapace di addormentarsi nel suo letto. Il lavoro con lei è stato, ed è tutt’ora, un lavoro molto delicato: ha iniziato gradualmente a prendere consapevolezza di tanti aspetti di sé stessa, primo fra tutti il fatto che il dolore e l’angoscia vissuta nel ‘qui e ora’ a seguito della fine della storia col suo ragazzo, avevano richiamato le stesse sensazioni di angoscia e di paura che aveva vissuto nella sua infanzia. I suoi genitori si separarono quando lei aveva solo quattro anni e molto spesso veniva lasciata a casa col fratello di soli due anni più grande, insieme alla baby-sitter: la madre, professionista in carriera, non c’era quasi mai; ma la cosa peggiore è che quando era presente, era totalmente indifferente ai suoi bisogni. Il padre, trasferito altrove con la nuova compagna, era altrettanto incapace di prendersi cura di lei. E come può una bambina di soli quattro anni crescere sicura di sé stessa e capace, una volta adulta, di ‘prendere il volo’? Senza una base sicura dalla quale partire – che solo genitori presenti e emotivamente attenti alle esigenze del figlio possono dare – nessun bambino può essere in grado di farlo da solo, o quanto meno non senza grandissime difficoltà.

L’abbandono vissuto dalla ragazza a seguito della fine della sua storia d’amore ha riaperto in lei una ferita già profondamente esistente, quella dell’abbandono da parte dei suoi genitori, a suo tempo vissuto in modo inconsapevole. Ma grazie a questa dolorosissima scoperta il lavoro che sta facendo su di sé la porterà finalmente a trovare in sé stessa quella base sicura che non potrà più abbandonarla, per poter poi creare relazioni con gli altri non più di dipendenza ma finalmente adulte, sane e durature.

 

 

Niente fu uguale da quel risveglio…

La storia di una donna che inizia a vivere

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Al risveglio da quella brutta operazione era già tutto cambiato in lei: non era già più la donna che era stata fino a quel momento. Per anni, forse per troppi anni, questa donna – ora cinquantenne – si era completamente dimenticata di sé. Figlia di un padre autoritario, violento e alcolizzato, a soli quindici anni si fidanza con l’uomo che poi a breve sarebbe diventato suo marito; crea con lui una famiglia: diventa mamma di tre bellissimi bambini che cura e protegge come un dono di Dio… ma si dimentica di sé. Si prende cura della casa, del marito – che ha grossi problemi fisici –, fa da badante ai suoceri: il tutto continuando a lavorare fuori casa non meno di otto ore al giorno. Fa tutto ciò con estrema dedizione, apparentemente senza alcun problema, pensando solo che così deve fare e che a questo è destinata. Forse solo quelle lacrime notturne, che a volte, nel cuore della notte, scendono sul suo viso quando si trova sola nel letto col marito lontano per lavoro, possono essere l’indizio di un malessere che sta crescendo dentro di lei… ma lei non dà loro peso. Anzi, quello sfogo notturno l’aiuta a buttare fuori tutte le sue tristezze e le sue angosce, così da essere pronta e attiva per tutti la mattina seguente.

Ma se possiamo ingannare la nostra mente, non possiamo ingannare il nostro corpo: arriva il momento che è lui a darci segnali quando arriviamo al nostro limite di sopportazione. E quel segnale arrivò per lei quella mattina quando, nella sua camera dal letto, un fortissimo dolore al petto la costrinse a chiedere aiuto, forse per la prima volta in vita sua. ‘Aiuto… aiuto… sto male… portatemi all’ospedale’. Quasi il marito e i figli credevano ad uno scherzo: non l’avevano mai sentita lamentarsi. Eppure questa volta era lei ad aver bisogno degli altri. Una corsa all’ospedale, un’operazione urgente… in bilico tra la vita e la morte. Giorni di angoscia per tutti i suoi cari: lei non sapeva di essere in coma e di stare lottando per rimanere in vita. Poi ecco il risveglio: aprì gli occhi e chiese che cosa fosse successo. Le spiegarono tutto: ‘Hai avuto un infarto, stavi per lasciarci… ma sei viva, ce l’hai fatta… sei VIVA!’. Il suo cuore ebbe un sussulto di gioia: non ne aveva mai sentita così tanta in vita sua. Iniziò ad assaporare ogni attimo delle sue giornate, iniziò a guardarsi allo specchio, cosa che non faceva mai prima, vista la poca importanza che dava alla sua immagine e a tutta sé stessa, iniziò ad ascoltarsi dentro; e nel fare questo ebbe come la brutta e insieme la bella sensazione di avere perso tantissimo tempo. Ebbe l’immagine di una donna che non si era mai concessa niente per sé, che si era solo preoccupata per gli altri ma mai per sé stessa. Niente fu più uguale da quel risveglio… i figli erano ormai grandi, il marito poteva badare a sé stesso, il lavoro poteva iniziare a diminuire… iniziò per lei il risveglio da una vita non vissuta.

Ma, dice sempre lei, ‘non ci sarei mai riuscita senza l’aiuto della terapia’. Sì, perché appena si rimise in piedi, decise di iniziare con me un percorso di terapia che l’aiutasse a gestire e metabolizzare il brutto trauma che aveva subito, ma, soprattutto, che le insegnasse a prendersi cura di sé senza quei devastanti sensi di colpa che aveva all’inizio della sua nuova vita ‘per sé’. E’ stato un percorso bellissimo, una vera e propria rinascita. Ora è una donna forte, che vuol vivere, che si ama e che ora, se ha bisogno, sa anche chiedere aiuto e non solo darlo.

 

 

‘Basta… non ti voglio più’

La storia di una donna finalmente libera

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Conosco questa ragazza da ormai tre anni, la prima volta che mi chiese aiuto fu per una paura ben precisa: aveva il terrore di andare dal dentista, alla sola idea si sentiva male. Tra le altre cose, sapeva che prima o poi avrebbe dovuto affrontare un’importante operazione ai denti, lo sapeva da tempo ma non aveva mai trovato il coraggio di prendere l’appuntamento. Abbiamo lavorato su questa paura e in soli tre mesi è riuscita non solo a tornare dal dentista per un controllo, ma anche a sottoporsi all’operazione che tanto la impauriva, e che le ha donato un sorriso bellissimo. Tuttavia, questo era solo l’inizio o, come spesso dico, la punta dell’iceberg. Oltre tutto questo si nascondeva molto di più, si celava una persona che dietro a quel sorriso, ora ritrovato, nascondeva un dolore ‘inguaribile’. Di quale dolore si trattava? Il dolore peggiore che una persona possa mai provare: il dolore per una madre che non ci ha amati come avrebbe dovuto, la tristezza di avere avuto un’infanzia infelice; non solo infelice ma addirittura fatta di violenze verbali e fisiche, violenze inflitte proprio da lei, dalla persona che più di ogni altra avrebbe dovuto proteggerci e curarci. Era una madre con tanti problemi, senza dubbio anche lei con un’infanzia infelice, ma questo non poteva giustificare l’atteggiamento avuto poi con sua figlia. Fin da piccola, la ragazza era stata costretta ad accudire il fratello più piccolo, a subire percosse per ogni minimo errore commesso o anche del tutto ingiustificate; veniva costretta a mangiare anche quando non aveva fame, o anche quando c’erano sul tavolo cibi che non le piacevano. Sua madre le batteva forte il cucchiaino sui denti, così tanto che spesso il cibo, non voluto, aveva il sapore del sangue. Non mi ha sorpreso scoprire che fin da adolescente il suo rapporto col cibo è stato pessimo, fino a sfociare in un disordine alimentare conclamato.

Quando da piccoli abbiamo avuto una madre che, come dice Bowlby, ‘non è stata sufficientemente buona’, una volta adulti portiamo dentro di noi questa ferita, continuando a farci del male, così come ci è stato fatto ingiustamente in passato. In effetti la paziente aveva una serie di comportamenti autodistruttivi, oltre al mangiare in modo sregolato e con continue abbuffate, comportamenti che si rendeva conto di mettere in atto ma che non riusciva a controllare.

È stata una terapia difficile, non indolore: continuava a ripetere piangendo ‘basta… non la voglio più dentro di me… continua a distruggermi anche se non è più qui vicino a me… è come se fosse ancora dentro di me… non la voglio più… basta…’.

È anche stata una grandissima soddisfazione vedere come questa ragazza, così impaurita dai suoi comportamenti impulsivi e dalla madre ‘cattiva’ che portava dentro di sé, si è liberata piano piano dal suo male, intravedendo una luce in fondo al tunnel: una luce che ha seguito con tanta determinazione, coraggio, forza di volontà… voglia di vivere serenamente e completamente.

Ad oggi continuiamo a vederci ogni due settimane. è diventata una donna bellissima, alle soglie di un matrimonio che avverrà tra pochi mesi. Tra le sue tante paure, aveva anche quella di diventare madre, per paura di non riuscire a prendersi cura dei suoi figli, così come aveva fatto sua madre nei suoi confronti. Ora, invece, quando parla di una futura maternità, le si illuminano gli occhi e si sente in grado, come non mai, di avere dei figli, consapevole che li saprà accudire con tutto l’amore che una madre dovrebbe avere.

Si è liberata di sua madre, ha tagliato quel cordone ombelicale che ancora la legava a lei.

Sono davvero felice per lei.

 

 

Edipo       

Superare l’angoscia

edipo

Un ragazzo apparentemente solare e sorridente ma internamente sofferente e cupo; di una bellezza rara ma portata, direi volontariamente, in modo trascurato. Studente di medicina ma amante della filosofia. In poche parole: erano lui e il suo contrario. Quello che sentii fin dal primo incontro fu la sua fortissima angoscia, un’angoscia che lo tormentava per intere ore e che nasceva dalla sua volontà – o meglio ‘necessità interiore’ – di trovare risposte che fossero ‘certe’ a domande ‘incerte’. ‘Cosa c’è dopo di noi quando moriremo? Esiste Dio? E se esiste che razza di Dio è? Buono? Cattivo? Che senso ha la vita se alla fine è morte certa per tutti?’. Passava ore ad analizzare tutto quello che la sua mente, inesorabilmente e senza tregua, partoriva ogni minuto sotto forma di pensieri sulla vita e sulla morte, sull’esistenza o meno di Dio, sul senso della nostra esistenza. Domande e dubbi che lo assillavano, di fronte ai quali si sentiva schiacciato, soprattutto quando non riusciva, nonostante i suoi sforzi, a trovare risposte che potessero placarlo; andava alla ricerca della verità leggendo quanto hanno scritto i grandi uomini del passato… filosofi, storici, politici, uomini di chiesa… eppure nessuno gli dava quello che avrebbe voluto avere; semplicemente perché non esistono risposte certe a domande incerte.

Ma la sua paura più grande era legata all’idea che potesse accadere qualcosa di male alle persone a lui care, soprattutto alle ragazze con cui era fidanzato o con le quali aveva avuto comunque delle relazioni emotivamente importanti. Sentiva il bisogno di proteggerle anche dopo che la relazione era finita; al solo pensiero di non farlo si sentiva profondamente in colpa. Per evitare che accadesse loro qualcosa di brutto, ripeteva complicati rituali fin dalla mattina quando si alzava: il fatto di compierli diminuiva quell’angoscia che sentiva salire dentro di lui al solo pensarci. Il rituale, in altre parole, era una sorta di rito propiziatorio per evitare il dramma temuto.

La sua era una vita ‘non vita’: sopravviveva ma non viveva. Eppure dentro di lui c’era un desiderio fortissimo di superare tutto questo, di amare, di ridere, di suonare la sua amata chitarra; desiderio schiacciato dai sensi di colpa, da un legame col passato, da un complesso di Edipo – direi in termini psicoanalitici – non ancora superato. In effetti, la presa di coscienza che dietro la volontà di proteggere quelle figure femminili ci fosse il desiderio di proteggere sua madre, alla quale era molto legato, fu per lui fondamentale; ma altrettanto importante fu scoprire che dietro alle domande sull’esistenza di Dio ci fosse in realtà la ricerca di un padre forte da prendere come modello di riferimento, diversamente da come percepiva il suo vero padre, uomo semplice ma debole.

Grazie a queste nuove consapevolezze iniziò per lui un percorso di scoperta di sé stesso, profonda, intensa, come del resto lo era la sua persona, fino al punto di svolta. Ricordo il giorno in cui arrivò e, con gli occhi che gli brillavano di felicità, mi disse: ‘C’è stata la svolta… sono finalmente libero… non ho più bisogno di fare rituali… sono ateo… finalmente sono riuscito ad ammetterlo a me stesso, a dirmi… ‘tu sei ateo’… non esiste niente dopo di noi, non ha senso niente se non questa vita, io non posso proteggere nessuno… non sono onnipotente, non esiste l’onnipotenza, esisto io ma non posso fare niente rispetto alla vita di altre persone…’.

Fu come liberarsi di una schiavitù, di un catena che gli impediva di vivere serenamente i suoi venticinque anni… E stato bello seguirlo in questo percorso di liberazione e di rinascita. Viene ancora da me perché il percorso non è ancora concluso ma come dice lui ‘è tutto un altro vivere’.

 

 

La pancia inesistente

Storia di un lutto diventato ossessione

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Ricordo una voce dolcissima già anche al telefono, ma mai tanto quanto di persona. Era una ragazza semplice, con modi gentili e timidi, apparentemente fragile e insicura. In realtà, non appena iniziò a raccontarmi di sé e del suo problema, mi apparve completamente diversa. Una storia alle spalle drammatica: una mamma persa a soli tredici anni di un tumore con il quale aveva lottato per anni, e della quale lei, ancora bambina, si prendeva cura, aiutandola nelle gestione della casa: era ‘la madre di sua madre’. Il padre, in tutto questo, era incapace di accettare e gestire il male di sua moglie, per cui si estraniava da tutto e da tutti, anche da sua figlia, costringendo questa bambina a prendersi cura anche di lui e a diventare anche ‘la madre di suo padre’. Nessun fratello o sorella, nessun parente che le venisse in aiuto. La sua vita si divideva tra la scuola, le faccende di casa e la cura della mamma, soprattutto negli ultimi mesi di questo triste calvario in cui faceva avanti e indietro tra casa e ospedale. Era diventata davvero una piccola donna, eppure aveva poco più di dieci anni.

Dopo la morte della madre, inizia a lavorare giorno e notte per mantenersi, perché il padre riusciva a malapena a badare a sé stesso, anche dal punto di vista economico. Trovò un ragazzo col quale si fidanzò arrivando presto alla soglia dei venti anni. Purtroppo, però, finita la relazione con il suo ragazzo, tutto ciò che apparentemente era superato, comincia a riemergere: riemerge il dolore per la perdita di sua madre, per un’infanzia toltale da una vita crudele, comincia a sentire la tristezza della solitudine, la rabbia e l’angoscia dell’abbandono. Ma la cosa ancora più drammatica è che tutto questo emerge in forma trasfigurata: il problema che lei mi porta non è questo ma l’ossessione per la sua pancia, una pancia che vede enorme, ‘gonfia come una palla… inguardabile… schifosa…’ – queste le sue parole –. In realtà quella che vedeva sul suo corpo non era la sua pancia, ma la pancia di sua madre che purtroppo, a causa del tumore all’intestino, negli ultimi tempi era diventata ‘gonfia come una palla… inguardabile… schifosa…’, proprio come quella che si vedeva guardandosi allo specchio.

Non è stato facile per lei capire che questo accadesse per il lutto vissuto: ‘la mia pancia è reale, è davvero così… il lutto di mia madre l’ho superato… sono due cose diverse’; era molto convinta di questo e nonostante fosse una ragazza davvero tanto intelligente e matura, in realtà emotivamente non riusciva ad accettare che sua madre fosse davvero morta: continuava a tenerla viva dentro di lei e a tener vivo il male che l’aveva portata via.

È stata in terapia da me per circa due anni, anni in cui è riuscita a liberarsi dal suo dolore tenuto nascosto, sepolto sotto la cenere ma mai elaborato e metabolizzato. Col dolore per la perdita, se ne è andata via anche la terribile ossessione per la sua pancia, è come se si fosse tolta quelle lenti deformanti che le facevano vedere la realtà in modo distorto. Ad oggi vive una vita serena, nonostante la cicatrice che sempre dovrà portare dentro di sé. Al momento la vedo solo ogni due mesi: ‘è sempre un piacere venire da lei’ – mi dice ogni volta – e per me è sempre un piacere vedere come sia diventata davvero una bellissima donna che tuttavia è riuscita a mantenere quella dolcezza e quella apparente fragilità di bambina.

 

 

La bestia nera delle terapie

La storia di un ragazzo che si libera dal disturbo ossessivo-compulsivo

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A chiamarmi fu sua madre: fu lei a prendere il primo appuntamento per il figlio appena ventenne. Alla prima seduta si presentarono insieme: lui mi dette la mano in modo timido, si sedette e rimase in silenzio almeno il primo quarto d’ora della seduta; sua madre invece mi invase con la sua ansia, raccontandomi del problema del figlio con un tono di voce piuttosto elevato.

Rimasi sola con il ragazzo da metà seduta in poi: il suo era un problema che gli rendeva ormai la vita molto difficile. Soffriva di un disturbo ossessivo-compulsivo, disturbo che lo costringeva a mettere in atto noiosissimi e rigidi rituali da ripetere ogni giorno, in modo preciso e puntuale. Il tutto nasceva da una paura emersa durante la scuola superiore, una paura di una presunta contaminazione che lo faceva sentire sporco e di conseguenza in colpa. Per evitare tutto questo aveva iniziato a lavarsi: i lavaggi lo avevano sollevato inizialmente dall’angoscia di essersi sporcato, ma gradualmente, giorno dopo giorno, la soluzione trovata cominciò a diventare il vero problema. Quando venne da me, infatti, ciò che gli rendeva la vita ‘un inferno’ – come ripeteva costantemente – non era più la paura della contaminazione ma l’incapacità di liberarsi dalla schiavitù delle sue compulsioni.

Si affidò a me: insieme abbiamo iniziato un percorso che lo ha visto liberarsi a piccoli passi dai suoi rituali e dalle sue paure. Ogni piccola vittoria sul rituale era per lui un grandissimo successo e grazie a questo otteneva quella forza necessaria per procedere ancora avanti… senza mai arrendersi. Si è scoperto una persona determinata e coraggiosa; è cresciuto e maturato, acquisendo importanti consapevolezze su di sé e la sua storia familiare.

Ad oggi – sono passati quasi due anni dal primo incontro – si dice contento. Ci vediamo ancora ogni due settimane per consolidare il processo di cambiamento avvenuto e ogni volta scopro che da solo è riuscito ad andare sempre un pochino più avanti. Non è ancora completamente libero dal pensiero della contaminazione ma lo è ormai completamente dai rituali; lavoreremo insieme fino alla completa scomparsa del problema, obiettivo che sento ormai vicino.

Per sconfiggere la ‘bestia nera delle terapie’ ci vuole tanta forza di volontà: lui, come gli ripeto ogni volta, ne ha avuta tanta, e sono davvero molto contenta e fiera del lavoro che insieme abbiamo fatto.

 

 

‘Voglio farla finita’

Quando riemergere dalla depressione significa ritornare a vivere

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A chiamarmi per il primo appuntamento fu il figlio: suo padre non aveva la forza, tantomeno il coraggio, di alzare la cornetta e chiedere aiuto. ‘Mio padre ha bisogno di aiuto… è caduto in una fortissima depressione… stanotte ha tentato di uccidersi… siamo disperati e non sappiamo cosa fare’.

Detti loro appuntamento per il giorno successivo perché percepii che la situazione era davvero drammatica, e purtroppo non mi sbagliavo. Quando lo incontrai era un uomo distrutto, devastato dal dolore, invaso da laceranti sensi di colpa, deluso da tutti, dalla vita stessa, che sempre aveva amato e vissuto pienamente. Perdere il lavoro sulla soglia della pensione, quando ancora rimanevano da pagare anni di mutuo; mandare avanti una seconda famiglia dopo una precedente separazione; sentirsi responsabili di decisioni sbagliate e vedersi portar via, in un attimo, tutto quello che era stata la sua vita precedente, fu per lui devastante. È ancora vivo in me il ricordo dell’espressione del suo volto quando si sedette davanti a me la prima volta: riusciva a parlare a malapena, non alzò quasi mai lo sguardo, era lento… di una lentezza dovuta alla notte passata in ospedale con una flebo attaccata per ore, a seguito del tentato suicidio.

Eppure quell’uomo, prima di tutto ciò, era conosciuto per la sua positività, per la sua voglia di stare insieme agli altri che spesso tendeva ad aiutare, grazie anche ad un lavoro di un certo livello che lo portava in giro per l’Italia ogni giorno. ‘Ma come ho fatto a ridurmi così… ma come ho fatto?’: lo ripeteva in continuazione, come un disco rotto, sembrava che sapesse dire solo questo. Non intendeva ascoltare altro, era chiuso nei suoi silenzi, nelle sue rimuginazioni, nelle sue paure. Confesso che il percorso di terapia con lui è stato un percorso faticoso: in alcuni momenti sentivo dentro di me la stessa sensazione di sconfitta e fallimento che sentiva lui, lo stesso scoraggiamento; per mesi ha continuato a venire da me, ma non sapeva dire altro se non che non si riconosceva in quello che era diventato, che si vergognava di sé e della sua miseria, che sarebbe stato meglio se quel giorno la sua compagna non fosse intervenuta e avesse lasciato che si uccidesse…

Nonostante tutto, ho portato avanti la terapia, certa che sarebbe stato in grado di uscire da quel tunnel nero: e non mi sbagliavo. Incontro dopo incontro, mese dopo mese, quest’uomo è riuscito dignitosamente a rialzarsi, a mettersi in gioco di nuovo, partendo davvero dal fondo. Ha ricominciato facendo qualsiasi tipo di lavoro, proprio lui che fino all’anno prima era stato un importante dirigente di azienda; per un anno e mezzo ha continuato a prendere porte in faccia da chi, scocciato dall’ennesima visita a casa, gli dava del buffone e del ladro quando invece cercava solo di vendere i propri prodotti. Grazie a questo massacrante lavoro ‘porta a porta’, alla terapia farmacologica e a quella psicologica, questo persona è lentamente riuscita ad uscire dalle sabbie mobili, a riemergere dalla nebbia; e io l’ho visto rifiorire in ogni aspetto della sua vita.

È ancora in terapia da me, ma ad oggi è un uomo completamente diverso da quello di due anni fa. Ha ritrovato un lavoro professionalmente stimolante, ha recuperato i rapporti con la sua famiglia; ma soprattutto è riuscito a perdonarsi e di conseguenza a liberarsi da quei devastanti sensi di colpa che lo avevano portato alle soglie del suicidio.

Continueremo insieme la nostra avventura terapeutica fino al completo raggiungimento di una sua nuova serenità.

 

 

Cuore a metà

La storia di una separazione familiare

Il suo era un problema di cuore: con la famiglia che aveva costruito insieme a sua moglie non riusciva più a stare; aveva due splendidi bambini che amava infinitamente e per loro avrebbe fatto qualsiasi cosa ma non amava più la persona che aveva sposato. Quando venne da me la prima volta per chiedermi aiuto ricordo che era quasi sull’orlo della disperazione: non riusciva a pensare ad una vita lontano da loro ma allo stesso tempo ogni sera, al momento del rientro a casa dopo il lavoro, sentiva una profonda pesantezza e una sensazione di soffocamento e angoscia.

Non è certo stato facile per lui arrivare ad accettare che può finire l’amore tra due persone ma mai quello di un genitore; ma soprattutto non è stato semplice decidere di cambiare la sua vita, allontanandosi da casa e dalla persona che ormai non amava da tempo, pur rimanendo un bravissimo padre quale era, presente e affettuoso.

Nell’arco di un anno è avvenuta la separazione: è stato senza dubbio un passaggio non facile, né per lui, né per la moglie, né per i bambini, ma grazie al supporto psicologico avuto in questo periodo è riuscito ad evitare che il tutto si trasformasse in un dramma familiare.

Attualmente vive da solo, i figli abitano con la madre, la quale, in modo comprensivo e intelligente, contribuisce degnamente alla gestione dei figli, per garantire loro serenità e protezione.

 

 

Impaurita dalla paura

La storia di una ragazza che soffriva di attacchi di panico

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Ricordo che mi chiese un appuntamento il prima possibile: già al telefono percepii la sua ansia. Quando la incontrai la prima volta era completamente in preda alle sue paure, alle sue ossessioni: non riusciva a fare più niente, se non stare in casa, dove si sentiva protetta e al sicuro.

Era una ragazza di quasi trent’anni, stava finendo gli studi universitari ma da un certo momento in poi si era completamente bloccata. Dopo un primo attacco di panico la notte prima del penultimo esame, cominciò ad averne anche il pomeriggio, anche in situazioni non prevedibili, e questa cosa la destabilizzò totalmente. Ogni volta che subiva un attacco di panico veniva invasa da una fortissima paura di impazzire e di perdere il controllo, paura di fronte alla quale si sentiva completamente disarmata. Cominciò ad avere paura della sua paura; ricordo le sue parole: ‘Dottoressa ho una grande paura… ma non so esattamente di cosa… so solo che mi terrorizza la mia stessa paura… mi aiuti la prego…’. Grazie ad un intervento strategico mirato sugli attacchi di panico, nell’arco di circa tre mesi, la ragazza già riusciva ad affrontare meglio alcune situazioni che prima la bloccavano completamente, imparando a gestire le sue paure quando queste si trasformavano in panico. La seconda fase della terapia ebbe invece l’obiettivo di indagare, in modo più profondo, le ragioni del suo blocco, analizzando i tratti della sua personalità e della sua storia familiare.

Grazie agli strumenti ‘strategici’ appresi durante il percorso di terapia e grazie alla presa di consapevolezza di tanti aspetti della sua vita è oggi una ragazza serena e libera da ciò che la imprigionava. E’ infatti riuscita a finire gli esami e sta preparando la tesi. A volte le capita di risentire quelle vecchie paure ma ‘…la cosa strana è che non mi spaventano più come prima perché so come affrontarle…’: riesce ogni volta a guardarle in faccia e a trasformarle in coraggio.

 

 

La bambola di porcellana

La fatica di togliersi la maschera della perfezione

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Come una bellissima bambola di porcellana, si accomodò sulla sedia del mio studio: la mia prima impressione fu che fosse così delicata da temere di romperla anche con le sole parole. Il mio tono di voce ricalcava il suo: era basso come il suo, era calmo proprio come il suo, sentivo di farle da specchio. Quella donna, nonostante i suoi quarant’anni, sembrava una ragazza. Era perfetta nel volto, nel corpo, nei modi… truccata sì, ma non in modo volgare, vestita con gusto ed eleganza.

Ma non parlò mai di sé. Mi chiese aiuto per il primo dei suoi due figli, un ragazzo di appena sedici anni in classica crisi adolescenziale. Ma mentre lei parlava io riuscivo a vedere oltre le sue parole: sentivo che la sua era una richiesta di aiuto per sé stessa, era per lei che aveva chiesto di venire da me; ma certamente, dall’alto della sua perfezione, mai avrebbe trovato il coraggio di chiederlo direttamente.

Ci sono voluti quattro anni di doloroso lavoro di terapia per arrivare ad oggi: quattro anni di sofferenza mai confessata agli altri, quattro anni di difese viste crollare una dopo l’altra, quattro anni di coraggio di fare un passettino alla volta cicatrizzando le ferite che dentro di lei erano rimaste aperte. Crescere da sola, dopo il divorzio, i figli, con una casa da gestire, un lavoro da mantenere, una vita sociale inesistente, non era stato facile per lei; ma il lavoro che l’attendeva in terapia, le sembrava un compito ancora più difficile e spaventoso: la paura era di scoprire che dietro a quella maschera di perfezione – che ogni sera la portava a mangiare e vomitare di nascosto da anni – ci fosse una brutta persona, una persona meschina e insensibile, non degna di essere amata e apprezzata per quella che era veramente.

Mai scoperta fu, per lei e per me, più sorprendente di quella di scoprire che in realtà, dentro alla perfetta bambola di porcellana, si nascondesse un’anima di una sensibilità estrema e di una profondità rara. Scoprendosi seduta dopo seduta, si è piaciuta sempre di più e finalmente ha iniziato a guardarsi attraverso non solo i miei occhi ma anche attraverso gli occhi di altri… imparando via via a mostrarsi nella sua spontaneità, nella sua autenticità, nella sua non più rigida perfezione aulica.

La bellissima bambola di porcellana che fu, è oggi una bellissima donna in carne e ossa, che si permette di emozionare e farsi emozionare, in uno scambio reciproco di ‘carezze’ con chi, come lei, è in grado di vedere oltre il limitato orizzonte delle apparenze.

Grazie per quello che mi hai dato in questi lunghi anni.

 

Da sola

Superare il lutto per ritornare a vivere

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Indossava un lungo golf nero, avvolta in una sciarpa enorme, quasi più grande di lei; le vedevo solo metà volto e quello che riuscivo a intravedere erano due enormi occhi gonfi e lucidi, che però nascondeva sotto dei bellissimi occhiali da sole. Notai subito quel particolare: una donna sull’orlo della disperazione che però indossava quegli occhiali. Pensai che forse, sotto tutta quella corazza, si nascondesse una vita che aveva voglia di uscire, di urlare, di liberarsi.

Fu così che conobbi per la prima volta questa paziente, questa donna straordinaria che in un lampo, come un fulmine a ciel sereno, ha perso suo marito in un bruttissimo incidente stradale. Un figlio ancora adolescente, da crescere ed educare, un’azienda da tirare avanti. Il tutto doveva farlo da sola, sì da sola… proprio lei che da sola non aveva mai fatto niente, lei che sola credeva di essere una nullità, lei che dipendeva fino al giorno prima dal suo amato marito.

Ricordo che la prima seduta fu un interminabile pianto, interrotto solo da frasi brevi o mezze frasi nelle quali, a fatica, descriveva quello che era accaduto; l’ascoltai con profonda commozione e attenzione. Decise di ritornare e di intraprendere con me un percorso di terapia. Ma non le bastava superare il trauma della morte di suo marito: voleva diventare una donna in grado di badare a sé stessa, voleva dimostrare a sé stessa di valere, di poter contare sulle sue forze, di poter crescere da sola suo figlio, di poter da sola mandare avanti un’azienda; ma soprattutto, e perché no, di poter di nuovo amare ed essere amata. Ma questa volta di un amore incondizionato, libero, adulto e consapevole.

Torna a trovarmi ogni tanto, e ogni volta è per me una grande gioia. Mi racconta i suoi successi, mi sorprende con il suo entusiasmo, il suo sorriso, la sua gioia di vivere. A volte le capita di ricadere nella malinconia e nella tristezza, a volte le capita ancora di guardarsi indietro, ma in modo molto maturo e coraggioso affronta il brutto momento e non si fa spaventare dal domani. Ogni volta è in grado di alzarsi da sola e di ripartire.

Ha raggiunto con la terapia un traguardo importante: ha imparato ad amarsi e a volersi bene. Il resto lo sta imparando da sola giorno dopo giorno, con tanta determinazione ma anche con un briciolo di sana pazzia.

Grazie per la persona che sei.

 

Pelle

La storia di un ragazzo adottato

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Parlava un italiano corretto, forse meglio di un ragazzo nato e cresciuto in Italia. Nessun dialetto, nessun accento particolare, forse una lieve cadenza fiorentina, ma appena accennata. Chiesi infatti due volte dove preferiva vedersi, se nello studio di Arezzo o di Firenze, dando per scontato che non abitasse nella nostra vallata. E invece mi sbagliavo. ‘No, no’, rispose lui, ‘Né Arezzo né Firenze, se possibile vorrei prendere un appuntamento in Casentino, a Lierna, dove ho visto che riceve il giovedì’. ‘Mi scusi’, risposi, ‘certo, d’accordo…’. E concordammo telefonicamente quando ci saremmo visti la prima volta.

In genere quando incontro le persone la prima volta sono sempre emozionata e incuriosita, ma questa volta lo ero ancora di più. Non so esattamente il perché, è come se avessi avuto la sensazione, già al telefono, che questo ragazzo, di appena ventidue anni, avesse già una vita vissuta, e forse volevo verificare che non mi stessi sbagliando. In effetti la mia intuizione era giusta, e lo capii appena aprì la porta e lo feci accomodare. Era un ragazzo di colore, di bell’aspetto, e senza dubbio dimostrava più di quello che erano i suoi anni, ma non tanto per l’esteriorità, quanto nei modi, nei gesti e negli occhi. Aspettai che fosse lui a parlare e già le sue prime parole mi commossero: ‘Come può vedere, non sono italiano e neppure europeo, sono di colore, sono un ‘negro’, come mi hanno sempre chiamato…’ – si fermò un attimo e sospirando con gli occhi inumiditi di lacrime continuò – ‘e questa etichetta non me la toglierò mai dalla mia pelle… è un marchio che mi fa ancora soffrire e che odio profondamente’.

Lo accolsi nella sua diversità, cercai di farlo sentire libero di esprimersi con me, tirando fuori tutto quello che provava, e così riuscì a fare. Seduta dopo seduta mi raccontò la sua storia, una tristissima storia di un bambino adottato alla sola età di due anni da una famiglia italiana; una famiglia protettiva e presente, che riuscì a dargli tutto quello che si può dare ad un figlio, forse anche di più. Ma l’amore e il rispetto che ebbe dai suoi genitori adottivi non furono, purtroppo, altrettanto facili da trovare fuori dalla sua famiglia, nella realtà di un mondo a volte ancora troppo chiuso alla diversità dell’essere umano. Vissuto in una grande città prima del trasferimento in Casentino mi raccontò, infatti, di continue prese in giro, fin dalle elementari, atti di bullismo, denigrazione… anche di violenze e soprusi a volte. In dei momenti trattenni con difficoltà la commozione per il dolore con il quale descriveva tutto questo. Ma sapevo che lo stavo aiutando a liberarsene e che solo così avrebbe potuto non odiare più quel suo diverso colore. ‘Solo qua in Casentino ho trovato il coraggio di affrontare tutto’ – disse commosso – ‘ho conosciuto persone che mi hanno accolto e mi hanno accettato, dandomi la forza di liberarmi della vergogna di essere diverso’.

Ricordo che nell’ultimo incontro aveva negli occhi un’espressione di orgoglio e sicurezza; sapevo che quello sarebbe stato l’ultimo nostro incontro e, per quanto dispiaciuta, era troppo più forte dentro di me la gioia di vederlo andar via fiero di sé.

Mi ha insegnato moltissimo e, se mi sta leggendo, voglio cogliere l’occasione per dirgli grazie.

 

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