Il cammino verso il cambiamento è difficile; ma cambiare si può. Non c’è terapia se non c’è cambiamento.
Khalil Gibran scrive: “Non si progredisce migliorando ciò che è già stato, bensì cercando di realizzare ciò che ancora non esiste”.
E’ una frase che mi ha portato a soffermarmi e riflettere, come tante delle frasi che leggo quotidianamente… Mi ha colpito particolarmente perché credo che nasconda una verità importante. Quando vogliamo crescere, progredire, – che sia in una situazione personale, o lavorativa, oppure affettiva e relazionale – tendiamo a chiederci che cosa possiamo fare per stare meglio, nell’ottica di aggiungere qualcosa a quello che già esisteva e non ci faceva stare bene; oppure al contrario tendiamo ad eliminare ciò che secondo noi era il motivo del malessere in quella situazione. Ci sforziamo di aggiungere o togliere, valutando la conseguenza di quello che ha comportato il ‘fare di più’, o lo ‘smettere di fare ciò che non andava più bene’. In realtà ciò comporta il rischio che il cambiamento, in vista di un miglioramento, sia solo superficiale. In realtà spesso non cambia niente, perché con il tempo si torna alla situazione iniziale. Forse perché questa non è la soluzione migliore: senza dubbio più facile e più comoda, comportando meno rischi di un cambiamento radicale che comunque sempre spaventa.
Mi viene in mente a tale proposito la storia dell’ubriaco: “C’era una volta un ubriaco, che aveva perso la chiave di casa e la stava cercando sotto un lampione. Passò un signore e, vedendolo in difficoltà, chiese che cosa fosse accaduto. L’ubriaco rispose di aver perso la chiave e che la stava cercando. Il signore chiese allora dove l’avesse persa e l’ubriaco rispose di averla persa più in là, dove era buio, ma che la stava cercando sotto il lampione perché lì c’era la luce”. La soluzione più facile non sempre è quella giusta per noi, per la nostra vita e la nostra felicità. La soluzione più difficile, al buio come nella storia dell’ubriaco, è senza dubbio più rischiosa perché non sappiamo che cosa ci sia là, dove non vediamo ancora; ma se troviamo il coraggio di andare in quella direzione magari scopriamo che quelle che erano le nostre paure in realtà si tramutano in fantasmi che scompaiono al momento in cui li tocchiamo, vanificandosi più facilmente di quanto avremmo pensato.
Tutto questo si capisce meglio con degli esempi concreti. Partiamo da una situazione relazionale e prendiamo l’esempio di una coppia sposata da anni che ha attraversato tutte le normali fasi di una coppia: la prima fase dell’Illusione, poi quella dell’Elusione, nella quale i problemi vengono ignorati e non affrontati facendo ‘finta’ che tutto vada bene, per poi arrivare alla terza fase, quella della Delusione. Qui si vede ciò che non si vedeva prima: i difetti, le cose che non ci piacciono, insomma l’altro per quello che è. Questo comporta inevitabilmente una crisi all’interno della coppia, spesso da entrambe le parti, crisi che il più delle volte si cerca di superare migliorando ciò che fino a quel momento esisteva. Ecco allora che i due membri della coppia, non sempre in modo equo ma comunque ognuno secondo il proprio carattere e le proprie volontà, si sforzano di far tornare la serenità, di superare la delusione di ciò che ormai è evidente.
Ma è come cercare la chiave nel buio. Nella delusione la coppia dovrebbe in realtà stabilire un nuovo contratto di coppia, diverso dal precedente, perché il vecchio non esiste più. Ogni coppia in effetti stabilisce all’inizio della sua unione un ‘contratto’ implicito che funziona fino a che non si arriva alla fase della Delusione. A questo punto è necessario cambiare: realizzare, come scrive Gibran, ciò che ancora non esiste. In altri termini la coppia deve rischiare di vedere che cosa c’è nel buio: ogni membro della coppia deve smettere di sforzarsi di fare qualcosa per cambiare sé stesso o l’altro, ma valutare come sta in questo nuovo equilibrio di coppia. Le due possibilità, a questo punto, sarebbero: ‘decidere di continuare a stare insieme’, con un nuovo contratto di coppia ed essendo altro rispetto a prima; oppure ‘decidere di andare per strade diverse’ accettando, seppur con difficoltà, il cambiamento e la separazione.
Lo stesso potrebbe valere per una situazione personale.
Prendiamo il caso di una persona, ormai maggiorenne, che decide di continuare ad abitare in casa dei genitori perché in quel momento le esigenze di sicurezza e stabilità la portano a stare meglio in una situazione ancora di dipendenza nei confronti dei propri genitori. Crescendo, e acquisendo sicurezze, inevitabilmente comincerà a sentire di essere all’interno di una gabbia che protegge ma che allo stesso tempo imprigiona. Potrebbe decidere di ritagliarsi più spazi di indipendenza all’interno della stessa situazione, ma rischierebbe di rimanere dipendente pur cercando di essere indipendente. Del resto è normale che i genitori continuino a fare i genitori finché i figli continuano a fare i figli vivendo con loro. Se davvero il figlio vuole crescere, progredire ed emanciparsi veramente dalla sua famiglia, sarà costretto a cambiare radicalmente ‘contratto familiare’, scegliendosi una sua casa e andando a vivere per conto proprio. Solo in questa situazione potrà maturare tutta una serie di consapevolezze di sé grazie alle quali potrà sentirsi davvero in grado di poter contare sulle proprie forze, piuttosto che su un aiuto che oltre un certo livello diventa un limite piuttosto che una risorsa.
Concludo invitandovi a riflettere su questi due bellissimi aforismi:
‘La vita è un processo in cui si deve costantemente scegliere tra la sicurezza, per paura e per il bisogno di difendersi, e il rischio, per progredire e crescere. Scegli di crescere almeno dieci volte al giorno’ (Abraham Maslow).
‘Il rischio è la vita stessa. Non si può rischiare che la propria vita. E se non la si rischia, non si vive’ (Amélie Nothomb).