I bambini e il web

Come possiamo aiutare i nostri bambini a gestire il mondo del web e a non cadere in alcune trappole pericolose?

 

Voglio iniziare questo articolo riferendomi al grave fatto di cronaca avvenuto a Napoli alcune settimane fa: un bambino di appena undici anni che si è lanciato dal balcone di casa sua e si è tolto la vita. Sembra che ciò sia avvenuto perché il bambino aveva ‘paura dell’uomo nero incappucciato’ – come ha lasciato scritto sul fogliettino per mamma e papà – e ha trovato come unica soluzione quella più estrema, il suicidio.

Come psicoterapeuta, ma soprattutto come mamma, ciò mi porta a fare una serie di riflessioni e a pormi tante domande, pur sapendo già in anticipo che non avranno risposte certe. Io mi chiedo: come può accadere che un bambino muoia in solitudine in un modo così atroce e non riesca a esprimere in modo diverso il suo dolore e le sue più profonde emozioni? Se ciò accade, di chi è la responsabilità? Dove è l’adulto che protegge da tutto questo? Dove è che noi, come genitori, come professionisti, stiamo sbagliando? Perché se ciò accade, non è certo responsabilità di un bambino. Qui le responsabilità sono altrove.

Questo fatto di cronaca mi ha particolarmente turbata, come del resto altre notizie simili di ragazzini appena sedicenni che si sono tolti la vita in modo simile, o che comunque hanno commesso atti di autolesionismo perché istigati da personaggi del web con apparenti sembianze benevole.

Il professor Tonioni, psichiatra e psicoterapeuta, Direttore del Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da Web presso la Fondazione Policlinico Gemelli di Roma, commentando i recenti fatti di cronaca che hanno visto molti bambini vittime di challenge dagli esiti tragici, ha dichiarato che ‘il problema non è internet, ma quanto un genitore o chi sta intorno ai bambini si è fatto sostituire come presenza affettiva dai tablet e dai telefonini’.

Si tratta sicuramente di un’affermazione molto forte fatta dal professore, che vede nella carenza affettiva la principale motivazione di simili gesti, affermazione con la quale si può essere più o meno d’accordo. Sono sicura che alcuni genitori, sentendosi additati come gli unici responsabili di eventi simili, punteranno il dito contro altri fattori di tipo sociale – come la società che è diventata più pericolosa o l’avanzamento della tecnologia che propone programmi alquanto nocivi per la salute psicologica dei loro figli –.

Al di là delle opinioni private di ognuno di noi, ciò che conta, dal mio punto di vita, è ciò che sta accadendo ai nostri ragazzi e ciò che possiamo fare per prevenire eventi simili ora e nel futuro. Nel mio lavoro di psicoterapeuta, nel quale ogni giorno ho a che fare con le emozioni più profonde delle persone, ho imparato che generalmente non esiste mai un’unica causa ad una paura o ad un dolore. Non esiste il bianco o il nero, ma esistono tante sfumature nella realtà che possono spiegare il perché di un ‘sentire’ e quindi di un comportamento conseguente, come quello fatto dal bambino di Napoli. Personalmente ritengo che, seppur sia vero che oggi la società è diventata più pericolosa e più difficile da gestire sia per i nostri figli che per noi genitori e che l’avanzamento della tecnologia ci espone, parallelamente ai vantaggi che porta, anche a maggior rischi, il professor Tonioni ha fatto emergere una profonda e triste verità: i tablet e i telefonini stanno modificando i legami e stanno diventando un sostituto importante alle relazioni affettive, non solo tra genitori e figli ma anche tra compagni o amici.

Non più tardi di un paio di mesi fa ho avuto modo, durante una vacanza, di osservare intorno a me i comportamenti delle persone, soprattutto delle famiglie, durante il momento dei pasti. La mia deformazione professionale mi porta da sempre a osservare per capire e ciò che ho visto mi ha particolarmente destabilizzata. Intere famiglie attorno al tavolo, ognuno con il proprio cellulare, in attesa del pranzo o della cena; coppie in assoluto silenzio incapaci di dialogare se non con il telefonino; bambini di appena un anno educati a mangiare con i video che la mamma ha messo loro davanti per finire il pasto e per evitare che piangano in mezzo alle persone. Nessun dialogo e nessuna intimità. Quanto descritto, da un punto di vista psicologico, è un grave problema, soprattutto perché non molti sono ancora consapevoli di ciò che questo può comportare nel corso degli anni. Eppure quando sentiamo notizie come quella del bambino di Napoli rimaniamo esterrefatti e crediamo che ciò sia avvenuto a quel bambino perché quel bambino era particolarmente fragile o perché si sentiva particolarmente solo. Magari pensiamo pure che i suoi genitori lo abbiano trascurato e non siano stati capaci di capire cosa stesse provando: siamo sempre piuttosto bravi ad arrivare a conclusioni affrettate quando si tratta degli altri. Ma se noi ci guardiamo bene, se osserviamo i nostri comportamenti, di fronte ad un fatto di cronaca così sconvolgente, siamo sicuri di stare facendo di tutto per evitare che ciò possa accadere anche a noi? Siamo sicuri che quando siamo a tavola con i nostri figli e guardiamo il cellulare o diamo a loro il cellulare perché non facciano confusione, non stiamo anche noi preparando il terreno a eventi simili?

E’ innegabile, come afferma il professor Tonioni, che eventi del genere accadono a bambini e ragazzi che sono inseriti in un contesto di solitudine affettiva: nessun bambino sano cade nella trappola, chi lo fa è perché ha una bassissima stima di sé e deve provare a superarsi. Se un ragazzino è forte e si sente amato, il web è un insieme di opportunità, ma se è cresciuto da solo e si sente fragile, il web diventa un rischio importante che potrebbe portarlo anche a gesti estremi.

Ma dobbiamo chiederci: da che cosa dipende se un bambino è ‘sano e forte’, come afferma il professore piuttosto che ‘insicuro e fragile’? La sicurezza, la forza, la stima di sé sono caratteristiche congenite o sono apprese nel corso del tempo dai nostri bambini?

Per quanto è innegabile una certa predisposizione caratteriale al momento della nascita, è altrettanto innegabile che l’ambiente familiare in cui il bambino cresce, i messaggi che riceve dai genitori o da chi se ne prende cura e i genitori stessi quali modelli di riferimento, fanno la differenza nell’avere un domani un figlio con una scarsa o con un’alta autostima. Come afferma Tonioni ‘non è colpa dei genitori, ma responsabilità sì. Nessun ragazzino nasce con manie compulsive o suicide, tutti hanno voglia di vivere’.

E allora come possiamo aiutare i nostri figli a crescere sicuri di sé e con un’alta autostima?

Bisogna imparare ad essere dei genitori presenti, ma non tanto fisicamente quanto da un punto di vista emotivo: dobbiamo far sentire al bambino che vediamo e comprendiamo il suo mondo interiore, che le sue emozioni sono importanti, che comprendiamo ed empatizziamo con ciò che sente e infine che possiamo essere una guida nel mondo interiore delle sue più profonde emozioni.

E così come in famiglia, ciò sarebbe importante anche a scuola: basterebbe un’ora a settimana in cui la maestra, con empatia, aiutasse i bambini a riconoscere quello che hanno dentro e a provare a metterlo in parole. Questa cosa, semplicissima, sarebbe anche una forma di prevenzione per tantissimi adolescenti che poi alle medie si chiudono di più e per i quali diventa sempre più difficile fidarsi di qualcuno.

Spero che questo articolo aiuti ognuno di noi – professionisti, genitori, maestri, professori – a riflettere su ciò che davvero concretamente possiamo fare per aiutare i nostri ragazzi a fidarsi di loro stessi e a vivere una vita completa.

 

Ilaria Artusi
L'autrice: Ilaria Artusi
Psicologa e psicoterapeuta specializzata in Psicoterapia Breve Strategica, training autogeno ed autoipnosi. Svolgo attività di consulenza clinica, sostegno psicologico e psicoterapia rivolta al singolo, alla coppia e alla famiglia. Tengo cicli di incontri di divulgazione psicologica rivolti a un pubblico di non specialisti.

Lascia un commento