Il rapporto tra psicologia, psicoterapia e religione non è facile da comprendere.
Il grande filosofo Friedrich Nietzsche ricordava, in una delle sue più celebre frasi, che ‘tutto ciò che è assoluto appartiene alla patologia’. Padre Jorge Mario Bergoglio, per tutti noi Papa Francesco, nel suo ultimo libro-intervista ha dichiarato: ‘quando m’imbatto in una persona rigida, soprattutto giovane, mi dico che è malato. Sono persone che in realtà ricercano una loro sicurezza’.
Beh, per quanto con parole diverse, il grande filosofo dell’800 e il nostro attuale Papa dicono la stessa cosa: e cioè che l’origine della patologia – meglio chiamata in termini psicologici ‘nevrosi’ – risiede proprio nell’eccesso di rigidità, nella ricerca della verità assoluta o meglio dell’assoluta perfezione. La cosa strana, però, non è tanto che questo concetto sia stato espresso da un filosofo, che come sappiamo, ha una visione universale della vita e dell’uomo, visione che abbraccia anche il mondo della psiche umana; quanto che a dirlo sia stato proprio un pontefice, che è il custode della verità cristiana. Ma ciò che ‘ha sconvolto’ ancor di più la maggior parte delle persone, soprattutto quelle credenti e devote alla figura religiosa, è la ‘confessione’ da parte di Papa Francesco di essere stato in terapia da una psicoanalista per ben sei mesi all’età di quarantadue anni, e che ciò – queste le sue parole – ‘mi ha aiutato molto’.
Devo dire, sinceramente, che tale confessione ha trovato anche me piuttosto impreparata: in effetti, per quanto nel corso degli anni vi siano stati pontefici e importanti figure religiose che hanno mostrato un certo avvicinamento al mondo della psicologia, di certo da sempre Chiesa e psicoanalisi sono state nemiche. Il Vaticano ha da sempre intuito nella psicoanalisi una pericolosa concorrente: tutto quello che veniva custodito nel confessionale, tutti i segreti personali raccontati al rappresentante di Cristo incarnato nella figura del sacerdote, potevano essere raccontati anche ad una figura non appartenente alla Chiesa, uomo o donna che sia, ma che conosceva la mente umana e che poteva, per questo, sottrarre alla Chiesa il monopolio dell’anima umana. Ora Papa Francesco ha fatto un’affermazione rivoluzionaria non solo perché ha dato un riconoscimento alla psicoanalisi e alla figura dell’analista – e più in generale alla psicoterapeuta e agli psicoterapeuti di ogni indirizzo –, ma perché ha elevato la psicoanalisi, come scrive giustamente il giornalista Fabio Martini della Stampa, a ‘compagna dell’anima umana’.
Una volta appresa questa notizia, ho letto opinioni in merito e riletto alcuni punti dell’intervista del Papa per poi decidere di trarne un articolo: non tanto per sostenere ed esaltare la psicologia – essendo chiaramente io di parte in questo senso – quanto per cercare di dare ai lettori, credenti o meno, uno spunto di riflessione su sé stessi e sulla società attuale: in particolare sui cambiamenti inevitabili che stiamo osservando in essa, primo tra tutti il sempre più difficile rapporto che l’uomo di oggi ha con la fede e con la Chiesa cattolica; e, d’altra parte, il sempre crescente e dilagante bisogno da parte dell’uomo contemporaneo di figure di sostegno diverse dal vecchio sacerdote, tra le quali psicologi, psicoterapeuti, educatori, counselor, coach life…
Ciò potrebbe portare alla banale affermazione per cui, che sia un sacerdote o che sia uno psicologo, l’uomo sembra che abbia sempre bisogno di un ‘qualcuno’ con cui parlare, in modo intimo e protetto, di aspetti personali non facilmente confessabili ad altri: e questo potrebbe essere interpretato, secondo me erroneamente, solo come una debolezza dell’essere umano, mentre, a mio avviso, chiedere aiuto in un momento di difficoltà è in realtà la più grande dimostrazione di coraggio e quindi di forza. Detto ciò, quello che invece qui mi preme sottolineare è la mia, e non solo mia, opinione che psicologia e fede in realtà non siano così nemiche; entrambe sono una discesa dentro noi stessi, nella profondità della nostra anima dove risiedono le potenti figure interiori che ci portiamo dentro: se sei cristiano la prima di queste figure interiori è Cristo, e solo dopo i tuoi genitori; se non lo sei, i primi sono i tuoi genitori, in particolare tuo padre – quello reale, quello in carne ed ossa –.
Ma allora, dove sta la differenza tra terapia psicologica e pratiche religiose?
Le pratiche religiose presuppongono la fede. Non può esserci fede se non c’è verità: una verità che è stata ormai rivelata per sempre perché secondo la visione religiosa tutti sappiamo cosa è bene e cosa è male. Tutti noi conosciamo i dieci comandamenti di Dio: cosa è lecito fare e cosa invece rappresenta peccato. Un peccato che è portato con colpa, colpa a sua volta espiata con il sacrificio e il pentimento. Viceversa, in psicoterapia non può esserci verità assoluta: anzi è una ricerca in cui non esistono limiti perché se vi sono limiti la terapia stessa fallisce o non inizia nemmeno. Forse la metafora più esplicativa in questo senso è quella di Cesare Musatti, notissimo psicoanalista, che descriveva l’analisi come una guerra civile: chi va in analisi è in guerra con sé stesso, è come uno Stato in cui parte dei cittadini si ribella e combatte contro gli altri. Se non esiste verità assoluta, non esiste qualcosa che sia giusto o sbagliato uguale per tutti. Questo chiaramente non significa che in terapia tutto è permesso: per fare un esempio non diremmo mai in terapia ad una persona che fa bene ad aggredire qualcuno con violenza se questo lo fa stare bene e dice che è giusto per lui. La grande differenza con le pratiche religiose sta nel fatto è che in terapia non esiste ‘moralismo’, non esiste un comportamento che venga etichettato come sbagliato o giusto a priori. Esiste un’etica, che è quella di ognuno di noi, esistono le scelte personali che possono essere guidate da situazioni diverse, esperienze senza dubbio diverse, infanzie diverse, genitori diversi, temperamento diverso… In poche parole in terapia non esiste colpa perché questa implica un giudizio che sia universale; in terapia la colpa si trasforma in responsabilità di ognuno, per cui non si emettono giudizi ma si fanno vedere le conseguenze delle proprie azioni e delle proprie scelte. La figura dello psicoanalista o psicoterapeuta aiuta la persona ad avvicinarsi il più possibile a sé stesso, a conoscersi nelle sue profondità e conseguentemente ad assumersi le responsabilità delle sue azioni secondo ciò che sente e che pensa. L’uomo che fa questo è un Adulto libero e responsabile, che agisce con la propria testa e con il proprio cuore, secondo la sua morale; l’uomo di chiesa è un Adulto che si adatta ad un credo e che agisce seguendo la morale cristiana, vincolando a volte la propria ragione ma soprattutto il proprio cuore a chi decide per lui.
In una società che oggi è sempre più libera dai valori cristiani, è chiaro che la figura dello psicologo va sempre più a sostituire quello della figura sacerdotale; e se anche il Papa Francesco ‘sdogana’ la psicoanalisi, credo che questo sia la chiara dimostrazione di un cambiamento inevitabile di cui dobbiamo prendere atto, che ci piaccia o meno.
La felicità, comunque, risiede nel sentirsi bene con sé stessi: credo che valga la pena provare ad esserlo ricercandola dentro di sé piuttosto che altrove, perché solo lì svaniranno le colpe e i conflitti interiori, causa spesso di nevrosi e di infelicità.
Grazie, da parte mia, anche a Papa Francesco!