Come è possibile vivere bene la scuola?
Di nuovo quel suono per migliaia di bambini e ragazzi… una campanella che segna l’inizio di un altro anno scolastico, di mesi di studio e impegni, dopo un’estate per molti spensierata; di certo qualche pensiero in più per quelli che a settembre devono recuperare i debiti assegnati loro. Ma in generale i mesi estivi sono per tutti una pausa, un periodo di divertimento e svago durante il quale, quasi, viene dimenticata la tanta fatica fatta fino a qualche mese prima: la sveglia presto la mattina, le cinque-sei ore di attenzione in aula, i compiti da svolgere per il giorno successivo. Tutto questo a giugno finisce: la sveglia non suona più a quell’ora così fastidiosa e l’intera giornata può essere passata come si vuole, in piscina, a casa di amici, in giro, al mare; di certo non sui libri.
Ma a settembre? A settembre ricomincia il tran tran quotidiano, si rimette in moto la ‘macchina scuola’, e con lei spesso tornano o compaiono per la prima volta tutta una serie di difficoltà e problemi che a volte non sono di facile gestione. Erroneamente pensiamo che la scuola sia faticosa e problematica solo per i ragazzi; certo, loro sono senza dubbio i protagonisti e su di loro grava una pressione costante; ma ci sono altre due categorie di persone coinvolte e per le quali l’anno scolastico non è certo meno faticoso: mi riferisco ai genitori e ai maestri-professori.
E allora forse è necessario cercare di analizzare il punto di vista di ognuno – ragazzi, genitori e insegnanti – per comprenderne le difficoltà specifiche, i possibili errori commessi, seppur inconsapevolmente, per poi dare dei suggerimenti per una gestione migliore della situazione.
Partiamo dai ragazzi: se un tempo il problema fondamentale erano le richieste troppo elevate della scuola, con tutto lo stress e la frustrazione che ne seguivano, oggi è la richiesta troppo blanda: perché studiare troppo se basta poco? Perché impegnarsi in ore di studio se comunque il sei è così facilmente ottenibile? Forse allora il vero problema dei ragazzi sta nella motivazione allo studio che sembra essere sempre più scarsa, nella difficoltà di trovare l’interesse di impegnarsi per conquistare quel ‘voto’ che possa dare, oltre ad una soddisfazione personale, anche la sicurezza di meritarsi poi quello che si desidera: l’uscita con gli amici, la paghetta settimanale o anche solo un ‘bravo’ detto da un genitore. Purtroppo oggi sembra che in molti casi l’equilibrio tra dovere e piacere sia venuto meno, troppo spesso a favore del secondo. Andare a scuola impegnandosi cercando di dare il massimo – che rappresenterebbe il dovere di ogni ragazzo – è diventato quasi un optional: solo il fatto di andarci è per molti già sufficiente per dire di fare il proprio dovere; quando però si tratta di ‘chiedere’ per soddisfare i propri desideri – quando cioè si tocca la sfera dei piaceri – diventa quasi tutto scontato e preteso. Ma il fatto che a molti ragazzi manchi la ‘motivazione’, l’interesse, la voglia, da che cosa dipende? Siamo proprio certi che siano i giovani i soli responsabili del loro comportamento? O dovremmo forse guardare anche oltre e cercare di analizzare questo fenomeno all’interno di un cambiamento più profondo della società, nel quale sono coinvolti anche i genitori e tutto il sistema scuola?
Sempre più spesso capita di sentire genitori di ragazzi – soprattutto delle scuole medie superiori – porsi e porre domande di questo tipo: come faccio a far studiare mio figlio se non ha voglia? Non posso mica ucciderlo! Certo, non si tratta di tornare all’autoritarismo di un tempo e alla sua violenza, ma anche l’eccesso di permissivismo ha delle conseguenze negative. Quello che si è verificato in questi ultimi decenni all’interno delle famiglie italiane, e che purtroppo continua a verificarsi, è di nuovo una mancanza di equilibrio: come i ragazzi propendono per il piacere piuttosto che per il dovere, così i genitori – con l’idea di fare il bene per i loro figli perché ‘in fin dei conti l’amore non ha mai fatto male a nessuno’ – sottovalutano che purtroppo l’eccesso di bontà, aiuto, presenza può essere altrettanto dannoso per la formazione della personalità del proprio ragazzo dell’eccesso di disciplina. E’ pur vero che dal modello familiare autoritario ne dovevamo uscire, doveva esserci una giusta ‘reazione’ – cosa questa che in parte giustifica l’atteggiamento che oggi osserviamo nei genitori, molti dei quali vittime loro stessi di famiglie autoritarie e quindi desiderosi di dare al proprio figlio un genitore ‘diverso’ dal loro, più buono e comprensivo. Il problema è che il pendolo che ha iniziato a muoversi da quell’estremo non si è fermato al centro in una posizione di equilibrio ma ha continuato oltre, per fermarsi nell’estremo opposto, dove la postazione di comando della famiglia non sembra più essere tenuta dai genitori, dal padre in particolar modo, ma dagli stessi figli. Vista all’interno di questo cambiamento sociale e familiare è forse ora più comprensibile anche la minore motivazione dei ragazzi verso l’impegno, il dovere, la fatica in generale: se indipendentemente dai risultati scolastici i figli ottengono comunque dai genitori quello che vogliono, se riescono alla fine ad avere la meglio senza troppo sforzo, perché fare di più? Perché non andare al minimo se tanto il traguardo lo raggiungono lo stesso? Il fatto è che così facendo non ci accorgiamo – noi tutti, come adulti-educatori – che invece di fare del bene ai nostri figli, facciamo loro solo del male; li facciamo crescere ‘vuoti’, ricoperti di cose materiali ma privi della cosa più bella che la vita può farci provare: la voglia di mettersi in gioco, di tentare, anche di soffrire purtroppo, ma comunque di ‘lottare’ per essere felici… ‘e la felicità non è un ‘panierino’ che scende dall’alto perché qualcuno è tanto buono da donarcela, ma ce la dobbiamo conquistare, senza mai mollare’. E in famiglia si impara o ad aspettare una felicità ‘dovuta’ – spesso purtroppo inutilmente – o a ‘meritarsela’: se solo i nostri genitori ci insegnano quali sono le nostre responsabilità e quale è il prezzo della nostra libertà.
E in tutto questo, la scuola – i maestri, i professori, i presidi – che ruolo hanno? Contribuiscono in parte alla perdita della motivazione da parte dei ragazzi o dobbiamo considerarli fuori da tutto questo, senza nessuna responsabilità? Certo diventa difficile riuscire a motivare i ragazzi allo studio quando purtroppo la società non motiva ad insegnare, spesso mancando di rispetto a chi una volta era invece visto come una guida importante per la crescita del ragazzo. In effetti, quello che si osserva negli ultimi decenni è una vera e propria squalifica del ruolo di ‘maestro’, di ‘insegnante’: i ragazzi non temono più il giudizio del professore come avveniva in passato e spesso gli stessi genitori si schierano a favore dei figli contro eventuali provvedimenti presi da parte del corpo docente. Tutto questo lo si comprende meglio se di nuovo lo consideriamo come la conseguenza di un cambiamento profondo della società, che ha visto sempre più la perdita di autorità da parte di figure di riferimento per i giovani – genitori, insegnanti e adulti in generale – a favore invece di uno spazio sempre maggiore da lasciare ai ragazzi, alle nuove generazioni.
Cosa, questa, che ha avuto ed ha i suoi aspetti positivi, ma che, se spinta oltre un certo limite, non li aiuta a crescere. La presenza di un modello a cui riferirsi e con cui confrontarsi per costruire la propria personalità è in effetti necessaria per ogni ragazzo e ogni ragazza in età adolescenziale. Ma se né a scuola né in famiglia trovano un modello ‘forte’, inevitabilmente lo cercheranno fuori. E fuori molto spesso non ci sono buoni modelli: può essere preso da modello l’amico che si ‘sballa’, il cantante squilibrato, o la ragazza che ha fatto di tutto pur di arrivare in tv ed essere conosciuta.
Ma allora se vogliamo evitare le conseguenze negative dell’aver fatto oscillare troppo il pendolo, fino all’estremo opposto – dall’autoritarismo all’iperprotezionismo e permissivismo –, dobbiamo ritrovare il punto di equilibrio nel quale genitori e insegnanti recuperano il loro ruolo di ‘guida’; devono essere di nuovo ristabilite delle ‘sane gerarchie’, sia in famiglia che a scuola, dove genitori e professori non siano ‘autoritari’ ma ‘autorevoli’. Due parole, queste, molto simili tra loro ma con un significato profondamente diverso: la persona autoritaria comanda e decide senza lasciare spazio alla libertà dell’altro; la persona autorevole, invece, è in grado di dettare le regole e di farle rispettate ma è anche aperta al confronto e al dialogo, ascolta il punto di vista del figlio o dell’alunno, senza però mai farsi mancare di rispetto. L’autorevolezza, in altri termini, è far sì che il giovane cresca con la consapevolezza che essere adulti significa avere di certo più libertà rispetto all’essere bambini ma anche più responsabilità, e che esistono delle conseguenze per tutto ciò che decidiamo di fare o non fare.
Questo è il messaggio che vorrei far arrivare agli ‘adulti’ che hanno la responsabilità di far crescere i propri ragazzi liberi ma altrettanto responsabili. E ai ragazzi vorrei dire questo: che tutto nella vita ha un prezzo e che quello che oggi si ottiene troppo facilmente, senza impegno e fatica, senza capire che cosa significa ‘lottare’ per ottenere ciò che desideriamo, domani può farci scoprire persone insoddisfatte, senza scopi o senza la capacità di raggiungerli nel caso in cui li avessimo: perché non abbiamo imparato da piccoli a raggiungere le nostre mete e da grandi, si sa, tutto è molto più difficile da apprendere.